Il 21 maggio 1981, 33 anni fa, veniva adottato dall’Assemblea Mondiale della Sanità il Codice Internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno.

Un nome difficile, presto abbreviato in “il Codice”. E’ una convenzione internazionale ed è stato redatto con la finalità di assicurare ai neonati una nutrizione sicura ed adeguata, proteggendo l’allattamento al seno da pratiche inappropriate di commercializzazione e distribuzione dei sostituti del latte materno (articolo 1).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda l’allattamento materno esclusivo per i primi 6 mesi di vita del bambino, mantenendo poi il latte materno fino al secondo anno o oltre (se la mamma ed il bambino lo desiderano) introducendo gradualmente cibi complementari. Questo perché se nei cosiddetti Paesi a Sviluppo Avanzato l’allattamento artificiale è meno salutare per il bambino e più costoso per le famiglie, il problema si fa drammatico nei Paesi in Via di Sviluppo dove l’OMS stima che 1,5 milioni di bambini muoiano ogni anno per la cosiddetta malattia da biberon (malnutrizione, diarrea e disidratazione poiché spesso l’acqua utilizzata per diluire il latte in polvere non è potabile, in molti luoghi è praticamente impossibile sterilizzare biberon e tettarelle, spesso la polvere è troppo diluita per aumentare la durata di costosissimi barattoli).
L’OMS stima che solo il 2% delle donne possano non avere latte (agalattia), aggiungendo “casi particolari” possiamo arrivare al 10-12% non di più. Il che significa che negli altri casi le mamme rinunciano ad allattare perché non hanno il sostegno adeguato dai pediatri, dalle ostetriche, dalla famiglia e sono, invece, in balìa di pubblicità ingannevoli.
Il Codice si applica quindi a tutti i sostituti del latte materno, i cosiddetti “alimenti per lattanti” (inclusi i cosiddetti latti speciali), i latti di proseguimento e di crescita, alimenti e bevande complementari, compresa l’acqua, se indicate per un’età inferiore ai 6 mesi, biberon e tettarelle (articoli 2 e 3).

Non ne vieta l’uso né la vendita, ma pone delle restrizioni alla loro commercializzazione, restrizioni frutto di trattative con le aziende produttrici che hanno partecipato alla stesura del Codice accettandolo come standard minimo universale (il che fa ancora più male quando poi si vedono certe violazioni, spesso reiterate).

Fonte : Ibfan Italia